La bicicletta è davvero così ecologica?

Tempo di lettura: 5 minuti

Siamo sicuri che la bici sia davvero così ecologica?

Non parlo dell’energia che serve a muoverla: parlo di quella che serve a produrla.

E non solo l’energia, ma anche le materie prime, la loro lavorazione e trasporto, tutte le fasi che dal materiale grezzo conducono alla creazione della nostra compagna a pedali.

E’ di questi giorni la decisione europea di cessare la produzione di veicoli con motore endotermico per il 2035.

Ci sono alcune legittime perplessità, altre che trovano gioco facile nelle semplicistiche affermazioni che poi bruciamo combustibili fossili per produrre l’energia elettrica necessaria a muovere questi veicoli.

Semplicistica perché non tiene conto che di pari passo prosegue la strada verso le energie rinnovabili.

Ma non è questo il punto e non mi interessa trattarne qui, serviva solo questa precisazione.

Senza dubbio la bicicletta è il veicolo ecologico per antonomasia.

Però a ben guardare, una bicicletta è composta da materiali ferrosi, leghe, compositi, derivati da idrocarburi, quasi nulla di “naturale”, che virgoletto perché alla fine tutto si trova in natura ma ci siamo capiti. 

Tutti questi materiali devono essere estratti, raffinati, lavorati, formati, trasportati e così via.

Prendiamo l’alluminio: non esiste in natura bello e pronto, si ricava dalla bauxite che si estrae da miniere a cielo aperto.

Per quanto lontani dalle disumane miniere di carbone, siamo comunque davanti a una attività estrattiva. 

Che non è gestita in tutto il mondo in eguale maniera. Possiamo ammirare le suggestive cave pugliesi, con tanto di scenografico laghetto; possiamo inorridire davanti la selvaggia deforestazione amazzonica.

Tutte le bici fanno ampio ricorso all’alluminio, non solo per i telai. Il cockpit, la trasmissione, gli accessori.

Siamo amanti del buon caro vecchio acciaio? Nemmeno lui esiste in natura, è una lega, si crea da materiali ferrosi, quindi ancora miniere, che uniti ad altri componenti vengono “cotti” in altoforni a 950 gradi.

Ossia in quelle enormi strutture, le acciaierie appunto, che tanto hanno fatto parlare di sé negli ultimi anni, sia per il loro impatto ambientale che per tragici eventi.

Come per le miniere anche per le acciaierie abbiamo standard molto diversi. Ovviamente più si cerca di ridurre l’impatto ambientale e aumentare la sicurezza dei lavoratori, maggiore sarà il costo per l’azienda e quindi, in definitiva, il prezzo finale.

Per abbassare i prezzi ed essere competitivi sul mercato globale, abbiamo così acciaierie che di ambiente e lavoratori se ne interessano nulla, come delle persone che vivono nelle vicinanze. E non serve per forza guardare al far est, abbiamo avuto e abbiamo ancora esempi a Nord e Sud della nostra Penisola.

Un altoforno richiede energia, tanta energia. Anche lei ha un forte impatto ambientale, sia per ricavarla che nel suo utilizzo.

Per equità tiro in ballo brevemente anche la fibra di carbonio, che necessita di resina epossidica bicomponente. Senza farla troppo lunga, è un prodotto chimico, definizione che uso in senso lato per indicare che è prodotta in quegli stabilimenti che spesso vediamo ai lati delle nostra strade, con tubi, silos e odori poco piacevoli.

E prima che obiettate, si lo so: sto componendo questo articolo usando un computer che è zeppo di minerali e terre rare, fatto di plastica e alluminio ecc ecc, mentre sono seduto su una poltrona da studio in similpelle, nylon e non so cos’altro, ho la luce accesa collegata a una presa di corrente che presumo sia prodotta da fonti non rinnovabili e così via. Però la scrivania è in tek, ha pure il suo secolo e passa, quindi almeno questa è naturale e duratura.

Ma, come detto all’inizio, la bicicletta è il veicolo ecologico per antonomasia, quindi lecito attendersi da lei che per essere felicemente pedalata non inquini.

Sono consapevole che queste sono argomentazioni che non fanno presa su una larga porzione di ciclisti, rapiti dai Kom, dal grammo in meno e che non usano una bici perché preoccupati della salute del pianeta.

Preoccupazioni che, confesso, non avevo nemmeno io quando inforcai la mia prima bici da corsa, all’alba degli spensierati anni ’80.

Dopo due anni, appena raggiunta l’età giusta, scorrazzavo anche su puzzolenti motorini a due tempi, li elaboravo perché quel cavallo e mezzo mi sembrava misera cosa, mi lasciavo alle spalle corpose nuvole maleodoranti per non parlare del rumore. E ancora oggi ho difficoltà a resistere al fascino di una Suzuki RG Gamma 500, memore delle giornate passate con lei in circuito.

D’accordo, non sono esente da colpe e vizi. Nondimeno sono cresciuto, maturato forse no, consapevole forse.

E mi pongo domande a cui cerco risposte.

L’industria della bicicletta quanto è sostenibile? Quali sono le condizioni di lavoro nelle fabbriche dell’Estremo Oriente? E quelle dei negozi di casa nostra? Quanto impatta la rincorsa annuale al nuovo modello, spesso con piccole variazioni di dettaglio ma capaci di rendere obsolete le bici dell’anno prima e quindi, in pratica, rifiuti industriali?

L’industria deve per forza essere in antitesi con l’ambiente o è possibile una integrazione?

Sono ragionevolmente convinto che se chiedessi a un qualunque ciclista quanto si sente ecologico pedalando, in una scala da uno a dieci si assolverebbe col massimo punteggio.

E non avrebbe tutti i torti, guardando alla bici come prodotto finito.

E’ l’arrivare al prodotto finito che mi fa nascere le domande appena poste.

Senza tralasciare una ulteriore considerazione: produrre secondo alti standard ambientali e di tutela dei lavoratori ha un costo, che si traduce alla fine della catena in un prezzo d’acquisto più elevato. Siamo disposti a spendere di più sapendo che è “per una buona causa”, come usa dirsi?

Tante domande, provo qualche risposta.

Nelle mie ricerche mi sono imbattuto in B Lab, ente no profit che si propone di trasformare l’economia globale a beneficio di tutte le persone, le comunità e il pianeta.

Non è una generica dichiarazione di principio, anzi.

B Lab ha stilato un rigoroso protocollo: chi lo rispetta può fregiarsi della certificazione B Corp, riconosciuta (e stimata) a livello internazionale.

Utilizzando l’utile motore di ricerca interno al sito, ho trovato ben pochi risultati per l’industria ciclistica.

Non ne sono sorpreso.

Cito due marchi: Chris King e Quality Bicycle Products.

Se il primo non ha bisogno di presentazioni, il secondo fa riferimento al più grande distributore Nord Americano, che annovera i marchi più prestigiosi e tra questi Salsa, Surly, All- City e tutto quanto di bello c’è nel nostro mondo a pedali.

Mission dell’azienda è, testuale: “aspire to get every butt on a bike”. Traducete voi.

Non dovrebbe sorprendere che Chris King abbia scelto di ottenere un accreditamento certificabile per le sue pratiche sostenibili. L’azienda è nota per le garanzie a vita sui suoi prodotti, a sostegno dell’idea che il ciclismo non dovrebbe far parte della cultura usa e getta. Tuttavia, per Chris King la sostenibilità va ben oltre la realizzazione di parti che durano e non rende i suoi prodotti obsoleti ogni anno semplicemente introducendo nuovi design, né sarebbe sufficiente per ottenere la certificazione da B Lab. Ottenere tale certificazione include l’adozione di principi etici come la produzione locale, il riciclaggio ove possibile, il pagamento di un salario minimo e l’uguaglianza di genere tra i dipendenti.

Mentre invece per Quality Bicycle Products, che è distributore, la questione è diversa mancando la possibilità di intervenire direttamente sui marchi distribuiti.

Allora ho cercato un produttore puro, trovandolo in Alpkit.

Azienda che spazia in abbigliamento e accessori per l’outdoor e, appunto, in bici, col marchio Sonder (che ha a catalogo l’ottima Camino da gravel, anche in titanio e che mi è sempre piaciuta…).

L’amministratore delegato David Hanney spiega: “L’industria del ciclo ha un vantaggio sulle questioni ambientali; l’uso della bicicletta contribuisce a compensare l’uso di combustibili fossili. C’è qualcosa di intrinsecamente positivo nelle biciclette e l’essere sostenibili è sempre stato parte integrante dell’azienda. Quando abbiamo iniziato nel 2004, abbiamo scritto sul nostro sito Web che “ci interessa quello che facciamo” e, parallelamente, paghiamo salari equi e cerchiamo di fare le cose un po’ meglio.

Con la certificazione B Corp non si tratta solo dell’impatto ambientale dei prodotti che realizziamo. È molto più ampio e riguarda il modo in cui facciamo affari.

La sostenibilità è un argomento molto vasto. Dal punto di vista ambientale quello che stiamo perseguendo è la scelta di materiali a basso impatto; guardando alla decarbonizzazione di Alpkit; stiamo cercando di allontanarci dai combustibili fossili e dai modi di trasporto che utilizzano combustibili fossili; e realizziamo prodotti durevoli, riparabili e infine riciclabili.

In termini di etica ci prendiamo cura del nostro personale. Siamo diventati un datore di lavoro che da del salario dignitoso uno dei propri fondamenti.”

Mentre Chris King e Alpkit sono due esempi di aziende del settore delle biciclette con un focus sul lato hardware del mercato, c’è anche il settore dell’abbigliamento da ciclismo e un esempio è Isadore, il marchio di abbigliamento fondato dai fratelli ed ex corridori su strada professionisti Martin e Peter Velits.

Percepiamo la sostenibilità come una necessità assoluta nell’attuale crisi ambientale e, inoltre, come un approccio aziendale a lungo termine che richiede una grande attenzione alle operazioni in corso sul piano ambientale, ecologico ed economico“, afferma Boris Stefanik, Head of Brand di Isadore.

Sin dalla fondazione iniziale di Isadore, abbiamo cercato di ottimizzare le nostre operazioni lungo queste linee, per stabilire che la sostenibilità è un valore essenziale per il nostro business. Quindi, la scelta della nostra sede produttiva e della nostra filiera è stata strategica per seguire questo valore prefissato”.

Significa che uno dei punti chiave di un’attività veramente sostenibile diventa anche lavorare a livello locale, sia con i fornitori che sostenendo la comunità della zona, facilitando l’accesso delle persone a lavori che pagano un salario dignitoso e che, se possono, riciclano.

Ovviamente, non è sempre possibile che certi processi e prodotti possano essere realizzati secondo questi principi, come riconosciuto da Hanney: “Se so che la fabbrica all’estero tratta i suoi dipendenti come facciamo noi, allora sono felice di lavorare con loro. Un esempio di questo è la fabbrica che utilizziamo per i nostri telai in titanio. Ha una forza lavoro davvero qualificata”.

Tuttavia, quando possibile e per essere classificato come prodotto e/o azienda sostenibile, è sempre preferibile operare il più possibile vicini alla fonte, diciamo così, pur senza rinnegare la globalizzazione, che non è un mostro se ben governata.

Spiega Stefanik: “Ci sforziamo di collocare la nostra produzione in Europa, più vicino ai nostri clienti, e quindi, riducendo le emissioni di CO2 durante tutta la fase di consegna. Diamo molta importanza al monitoraggio dell’origine dei nostri materiali e all’essere totalmente aperti su ciò che sappiamo e ciò che non abbiamo ancora scoperto. Riteniamo che il luogo in cui produciamo e la catena di fornitura abbiano ricevuto maggiore attenzione negli ultimi anni perché i clienti si preoccupano maggiormente dell’intero processo di produzione e, di conseguenza, Isadore offre completa trasparenza nella conoscenza della nostra catena di fornitura.

Fin dall’inizio sapevamo di voler lavorare con la nostra città natale Makyta Factory a Puchov. Con la crescita della nostra attività, sono cresciuti anche i nostri siti di produzione”.

Attualmente, la produzione di Isadore è equamente distribuita tra Slovacchia, Portogallo e Lituania. Stefanik afferma che sono luoghi scelti “perché ci preoccupiamo di un buon ambiente di lavoro per i lavoratori tessili. Sappiamo che i lavoratori lì ricevono il salario dignitoso europeo, lavorano in buone condizioni e sono orgogliosi del loro artigianato“.

Tutto bello e interessante ma sorge il dubbio: greewashing o sostanza?

È chiaro quindi che affinché un’azienda si muova verso la sostenibilità, deve essere consapevole della provenienza dei materiali e delle forniture e che la forza lavoro in ogni fase del processo di produzione sia trattata in modo equo. Quindi, cos’altro si può e si deve fare per rivendicare la sostenibilità?

Perché torniamo all’inizio di questo articolo, i materiali. Se per avere loro inquiniamo uguale e sfruttiamo i lavoratori, tutto si inceppa.

Il riciclo e l’uso di materiali riciclati sono sempre stati punti di forza nel viaggio di Chris King verso la sostenibilità ed è un tema comune sia a Isadore che ad Alpkit. “Che si tratti di acciaio, alluminio o titanio, hai un materiale che è molto intensivo da produrre, ma una volta ottenuto hai qualcosa che può durare per anni e che aiuta a compensare il consumo di energia che lo ha creato. Ecco perché i prodotti devono essere progettati e costruiti per durare ed essere facilmente riparabili. E alla fine della vita utile di una bicicletta, gran parte del materiale può essere riciclato“, osserva Hanney.

Continua: “Recentemente ho cercato di trovare un modo per ottenere titanio e fibra di carbonio riciclati. L’acciaio riciclato non è un problema. Quando ho chiesto a Reynolds qual è il contenuto riciclato in un certo numero di tubi, mi è stato risposto che è al 100%. Se l’industria lavora insieme, possiamo recuperare il titanio e la fibra di carbonio per essere riciclati e chiudere così il ciclo produttivo“.

Mi colpisce la frase di Hanney “i prodotti devono essere progettati e costruiti per durare ed essere facilmente riparabili”.

Che di fatto è o dovrebbe essere l’essenza stessa della bicicletta, almeno per molti di noi.

Assistiamo invece, soprattutto negli ultimi anni, a complicazioni spesso inutili, modelli sfornati ogni anno con modifiche irrisorie.

Non annovero in questo male andazzo l’evoluzione tecnologica, quella è necessaria purché abbia un giusto fine e non, perdonate il gioco di parole, sia fine a se stessa.

E poi c’è un altro aspetto. Come abbiamo appena letto, le aziende che certificano la propria sostenibilità sono, giustamente, orgogliose e non mancano di rimarcarlo.

Ma c’è anche chi, seppure non abbia richiesto la certificazione B Corp, da anni in silenzio (pure troppo) persegue gli stessi fini: Shimano.

Spesso vi ho detto che al di là della tecnologia, eccellente non lo metto in dubbio ma che da sola non mi basta, apprezzo Shimano per la sua filosofia, affine al mio modo di pensare.

Compresa la ritrosia nella comunicazione, quel lavorare dietro le quinte senza sbandierare successi o risultati.

Se però di cosa faccio o non faccio io interessa manco mia figlia, sarebbe interessante avere tra le mani qualche dichiarazione o studio o intervista di fonte aziendale ma nisba, dobbiamo accontentarci di quello che ho ricavato in alcune conversazioni unendolo a mie considerazioni.

Del resto i giapponesi sono fatti così, impermeabili all’esterno, erroneamente ritenuti freddi e seriosi, sono convinti che anche la forma sia sostanza. 

E se fanno una cosa bene non te lo dicono, per loro sarebbe un imperdonabile pavoneggiarsi: fare le cose per bene è semplicemente giusto, naturale direi.

Eppure è da tempo che l’azienda giapponese, che non dimentichiamo è il più grande produttore mondiale di componenti per bici, spinge perché tutte le aziende del settore si instradino verso la piena sostenibilità.

Chiedersi, per esempio, l’alluminio usato dove e come viene ricavato, quindi dalla miniera al trasporto del prodotto finito.

Assicurarsi che le aziende coinvolte nella produzione delle materie prime seguano rigorosi standard non solo qualitativi ma, appunto, di sostenibilità ambientale in senso ampio.

Orientare le proprie scelte tecniche e di prodotto anche cercando di limitare “lo spreco” diciamo così, e in quest’ottica deve essere vista la presentazione della famiglia CUES, non solo per il dato tecnico.

Quando acquistai la mia ultima auto, che tutt’ora possiedo, avevo due parametri: capienza bagagliaio (almeno 3 bici) e condizioni dei lavoratori. Mi informai, con mille ricerche, prima di quest’ultimo aspetto, poi dell’auto in sé.

Nel caso di Shimano parlare di condizioni dei lavoratori è superfluo, lo standard è elevatissimo sia in patria che per le poche fabbriche fuori dal suolo nipponico.

Purtroppo c’è pochissima comunicazione su come effettivamente sviluppino gli standard di sostenibilità per l’approvvigionamento delle materie prime e loro lavorazione e trasporto, così come sulla “qualità ambientale” delle stesse.

Per esempio altra industria nipponica ma di moto, la Yamaha, ha da poco ufficializzato l’introduzione dell’alluminio verde, che proprio verde non è ma almeno riduce di 4/5 volte le emissioni di Co2 in fase di produzione; così come sappiamo che la stessa azienda utilizza l’80% di alluminio riciclato.

So da fonte certa che anche Shimano usa materie prime riciclate ma resta questo inspiegabile vuoto nella comunicazione che mi impedisce di fornire dati oggettivi.

Ed è un peccato, perché ora più che mai serve che aziende leader del settore bici si facciano non solo promotrici di incontri riservati con altri manager di differenti aziende ma rendano pubblico, con forti campagne di comunicazione, non solo la propria “sostenibilità” produttiva ma anche i piani per il futuro.

Molti i produttori di bici, pochissimi quelli di trasmissioni.

In pratica senza di loro, si blocca tutto.

Per questo auspico siano proprio loro a farsi capifila di una rinnovata politica industriale, mettendo sul piatto della bilancia il loro peso “pratico”, chiamiamolo così.

Nel 2023 verranno al pettine nodi irrisolti frutto di palesi errori di valutazione sul piano produttivo e nelle politiche commerciali, già adesso emergono le prime criticità.

Invochiamo a gran voce piena dignità per la bicicletta, ne magnifichiamo le virtù nel contrastare i gravi problemi ambientali che affliggono la Terra: che sia allora proprio il nostro mondo a pedali a tracciare la rotta futura.

Link di approfondimento

B Lab

B Lab Europa

Buone pedalate

COMMENTS

  • <cite class="fn">Paolo Mori</cite>

    Il tempo per un commento più approfondito mi manca, come ultimamente di solito. Giusto due link a una cosa che mi è capitato di vedere di recente a tema emissioni
    https://www.bosch-ebike.com/it/help-center/sustainability-1/in-media-dopo-quanti-chilometri-sono-ammortizzate-e843
    https://www.bosch-ebike.com/it/help-center/sustainability-1/quanto-e-grande-l-impronta-di-co2-di-un-ebike-e326

    Non ho idea di come abbiano ricavato i dati, e su quella pagina di FAQ non c’è molto di più approfondito sulle emissione.

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Paolo, grazie per questo intervento. Avevo letto queste Faq, tra l’altro è mosca bianca bosch a fornire questi dati, ma ho preferito per ora guardare solo alle bici classiche e non limitarmi alle emissioni quanto a tutta la catena produttiva. Per le e-bike il discorso è differente perché il paragone è sempre con l’auto, di fatto sono viste dagli utenti proprio come alternativa ai veicoli a motore a combustione interna, come scrissi parlando dello studio commissionato da Shimano.
      Ma è in cantiere anche un articolo dedicato a loro, anzi più articoli perché oltre le questione sostenibilità voglio anche provarne una, una ebike che ho selezionato per un test proprio cercando l’impostazione “veicolo alternativo all’auto”, quindi non passione pedalatoria per capirci.
      Sto ancora pianificando, mai cimentato con una ebike decente, cambia tutto il protocollo dei test e ancora non ho deciso a cosa dare priorità.

      Fabio

  • <cite class="fn">Eddy</cite>

    Salve, vorrei contribuire facendo sapere che sul sito Trek si trova il loro report sull’impatto della produzione delle bici, avevo letto quello del 2021 e l’ho trovato interessante (grazie a questo commento ho scoperto che l’hanno aggiornato ad agosto 2023).
    Sperando di fare cosa gradita, vi lascio il link:

    https://view.publitas.com/trek-bicycle/2023-sustainability_reportedition_eu_it-it/page/1

    • <cite class="fn">Elessarbicycle</cite>

      Ciao Eddy, ti ringrazio per il tuo intervento.
      Conosco bene la politica Trek sul punto, infatti è uno dei motivi per cui compare spesso sul blog. Nella scelta dei test è un aspetto che tengo in gran considerazione, mi fa piacere sapere che è stato notato.

      Fabio

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